orologio circadiano e rischio di morte

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Orologio circadiano e rischio di morte: cosa dicono i geni

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L’ora della nostra morte potrebbe non essere un mistero del tutto indecifrabile: alcune ricerche suggeriscono infatti che il nostro orologio biologico e varianti genetiche legate al ciclo del sonno possano influenzare la distribuzione temporale degli eventi acuti (come infarto e ictus) e, quindi, i momenti della giornata in cui il rischio di decesso è maggiore.

Il tema nasce da studi come quello condotto dal gruppo del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, pubblicato su Annals of Neurology, che analizzarono un campione di circa 1200 adulti over 65 e misurarono correlazioni tra il ciclo del sonno, varianti del gene del Periodo 1 (PER1) e la temporalità dei decessi. I risultati suggerivano che chi ha un profilo cronobiologico “mattiniero” tende ad avere un’incidenza maggiore di eventi letali prima di mezzogiorno, mentre i “serali” mostrerebbero una maggiore probabilità di eventi nel tardo pomeriggio/sera.

Che cosa significa, in pratica, la scoperta del 2012

Lo studio originale metteva in relazione un tratto genetico (una specifica variante del gene Periodo 1) con il comportamento del sonno e, indirettamente, con la probabilità che eventi acuti insorgano in particolari momenti della giornata. L’ipotesi chiave è che l’orologio biologico regoli non solo il ritmo sonno-veglia, ma anche funzioni cardiovascolari, coagulazione sanguigna, pressione arteriosa e risposte infiammatorie: fattori tutti coinvolti nei meccanismi che scatenano infarto e ictus.

Il significato pratico dello studio non era che «i geni stabiliscono l’ora della nostra morte» in senso deterministico, ma piuttosto che alcuni profili genetici e cronotipi possono aumentare la probabilità che eventi acuti si manifestino in specifiche finestre temporali. Questo potrebbe aiutare i clinici a prestare maggiore attenzione in alcune fasce orarie nei pazienti più fragili.

Cosa è cambiato e cosa sappiamo oggi

Dall’anno dello studio sono emerse numerose evidenze aggiuntive sulla cronobiologia e sulla salute, che aiutano a collocare quei primi risultati in un quadro più solido e sfumato:

  • Il cronotipo conta: studi su grandi coorti (decine di migliaia di partecipanti) hanno mostrato che i cronotipi serali (“nottambuli”) sono associati a un aumentato rischio di obesità, diabete, disturbi cardiovascolari e, in alcuni lavori, a una mortalità più alta rispetto ai mattinieri. Questo non contraddice l’osservazione iniziale, ma la amplia: non è solo l’ora del decesso che può cambiare, ma l’intero profilo di rischio metabolico associato al proprio ritmo biologico.
  • I geni spiegano solo una parte: la genetica del ritmo circadiano (PER1, CLOCK, CRY, PER2 ecc.) contribuisce alla predisposizione al cronotipo, ma l’effetto di singole varianti è in genere modesto. Ambiente, comportamenti (sonno, alimentazione, attività fisica), lavoro a turni e comorbilità svolgono un ruolo altrettanto o più determinante.
  • Conferme sui picchi temporali degli eventi acuti: la letteratura clinica conferma l’esistenza di picchi temporali per eventi cardiovascolari: ad esempio, molte serie statistiche mostrano un aumento degli infarti nelle prime ore del mattino. Ciò è coerente con l’idea che alcuni ormoni e parametri cardiovascolari seguano un ritmo circadiano che può predisporre a eventi acuti in determinate fasce orarie.
  • Applicazioni cliniche emergenti: la crescente disciplina della cronoterapia (ottimizzazione del timing di farmaci e terapie rispetto al ritmo circadiano) è una diretta applicazione delle conoscenze sul timing biologico: somministrare terapia antitrombotica, antipertensiva o metabolica in orari mirati può migliorare efficacia e sicurezza in alcuni pazienti.

Limiti e cautele interpretative

È importante chiarire alcuni punti fondamentali prima di trarre conclusioni semplicistiche:

  • Correlazione non è causalità: la presenza di una variante genetica associata a un cronotipo e a una finestra di rischio non implica che il gene «causi» la morte in un’ora precisa.
  • Effetto modesto dei singoli SNP: la maggior parte delle varianti genetiche legate al cronotipo spiega solo piccole frazioni della variabilità individuale; il comportamento (quando ci si sveglia, come si dorme, dieta e attività) rimane centrale.
  • Età e contesto clinico: lo studio citato analizzava over-65: il timing degli eventi può differire in popolazioni più giovani o meno comorbide. Inoltre, il profilo di rischio è fortemente influenzato da malattie preesistenti.
  • Ruolo dei fattori sociali: lavoro a turni, abitudini di sonno sociali e stress possono modificare profondamente il cronotipo e il rischio associato, spesso più della genetica.

Quali implicazioni pratiche per i clinici e per i singoli

Le scoperte sulla cronobiologia e sulla genetica del sonno aprono alcune strade utili:

  • Monitorare i pazienti a rischio nelle fasce orarie critiche: in reparti cardiovascolari o in terapia intensiva, la consapevolezza dei picchi temporali può orientare sorveglianza e turnazioni.
  • Valutare il cronotipo nella medicina personalizzata: conoscere se un paziente è mattiniero o serale può aiutare a pianificare orari di somministrazione farmacologica (cronoterapia) e interventi comportamentali.
  • Ridurre i rischi legati al lavoro a turni: i lavoratori notturni hanno una discreta evidenza di aumento del rischio metabolico e cardiovascolare: interventi di prevenzione, screening e adattamento dei turni possono mitigare questi effetti.
  • Promuovere l’igiene del sonno: controllare luce serale, regolarità orari, esposizione mattutina alla luce naturale e buona routine del riposo sono interventi pratici, efficaci e non invasivi per ridurre rischi a lungo termine.

Ricerca futura e prospettive

La strada è ancora lunga: gli studi più recenti puntano a integrare informazioni genetiche, dati di actigrafia (monitoraggio oggettivo del sonno), biomarcatori infiammatori e grandi record clinici per mettere a punto modelli predittivi più accurati. In prospettiva, potremo usare il profilo circadiano individuale (combinato con variabili cliniche) per personalizzare terapie, orari di somministrazione dei farmaci e strategie preventive.

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I nostri ritmi biologici e i nostri geni offrono informazioni utili sul profilo temporale del rischio, ma non determinano in modo assoluto il destino. La ricerca iniziata nei primi anni 2010 ha gettato le basi per comprendere come cronotipo, genetica e ambiente interagiscano per modulare il rischio di eventi acuti. Oggi sappiamo che l’orologio biologico è rilevante per la salute, che può guidare scelte terapeutiche (cronoterapia) e misure preventive, e che un approccio integrato—che tenga conto di genetica, comportamento e condizioni cliniche—è la strada più sensata per trasformare questa conoscenza in beneficio concreto per i pazienti.

Rimangono però chiari i limiti: i geni danno indizi, non sentenze, e il modo in cui viviamo (sonno, luce, attività, lavoro) resta uno dei fattori più potenti su cui possiamo intervenire per migliorare la nostra sopravvivenza e qualità di vita.

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Life Coach, insegnante di Yoga e meditazione. Autrice del libro “La mia casa ecopulita” edito da Gribaudo - Feltrinelli editore.