mi dispiace

In realtà, non sono affatto dispiaciuto… non mi dispiace!

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin

Tante parole si sono fatte strada nel mio vocabolario. “Mi piace” certamente è l’espressione che uso più spesso di quanto mi piaccia ammettere, ma nel corso degli anni, nessuna parola è diventata ostinata, ma sgradevolmente assuefatta al mio lessico, come l’espressione “mi dispiace”.

Ad un certo punto, ho iniziato a usare “mi dispiace” come sinonimo di “mi scusi”. Non sono certo l’unica ad avere questa abitudine. Risultato dopo risultato ho dimostrato che le donne fanno un uso eccessivo dell’espressione “mi dispiace” e la mia ricerca ad hoc lo ha confermato.

Per un paio di settimane ho preso appunti ogni volta che la gente mi ha detto che era dispiaciuta. Le donne si sono scusate continuamente e quasi mai per ragioni che lo meritavano:

  • stavano lavando un piatto nel lavandino dell’ufficio mentre io aspettavo di riempire la mia bottiglia d’acqua;
  • il loro cibo era nel forno a microonde che avevo provato ad usare;
  • mi sono quasi scontrata mentre mi spostavo da una stanza all’altra e stavo cercando di entrare.

Gli uomini, d’altra parte, sono inclini a dire cose come,

  • “Il lavello è tutto tuo!”
  • “lascio a te il passaggio”
  • “Mi scusi, vada avanti”

Nessuna di queste espressioni risulta meno educata di un sottomesso “mi dispiace”.

Ho deciso che era il momento di tirarmi fuori: niente più frivoli “mi dispiace” per me. Posso essere un’interlocutrice cortese ed efficace, senza chiedere scusa per cose che ho tutto il diritto di fare.

È stato di gran lunga più facile a dirsi che a farsi. Non so in quale momento ho imparato a comportarmi cosi, ma questo comportamento si è profondamente radicato in me e ho fatto fatica dal trattenermi dal metterlo in pratica.

Nei primi giorni ero iper-consapevole della mia voglia di dire che ero spiacente. Alcune frasi proprio non le sentivo complete senza quella espressione. Mi sarebbe piaciuto sussurrare un amichevole “mi scusi, per favore” se mi fossi trovata nella parte posteriore di un ascensore affollato quando tocca terra, ma semplicemente non mi bastava.

Con il tempo ho portato il mio nuovo approccio fuori dalla porta, avevo aggiunto un “mi dispiace” a tutte le persone che avevo conosciuto in passato. Per cosa stavo chiedendo scusa?

Un’ulteriore sfida che puntualmente si ripresenta: fare domande, soprattutto sul lavoro. Come faccio ad avviare una conversazione, sia di persona o via chat, con qualcuno che è assorbito dal proprio lavoro senza uscire fuori con un “Mi spiace, ma posso chiederti una cosa?”

Ancora una volta, mi sono chiesta: per che cosa ero dispiaciuta? Perché non ero al corrente di qualcosa? Non c’è vergogna in questo. Perché volevo sapere qualcosa? Ho tutto il diritto di cercare informazioni che sono rilevanti non solo per il mio lavoro ma perché mi avrebbero permesso di svolgerlo al meglio.

Per aver interrotto o, Dio non voglia, aver dato fastidio a qualcuno? Questa è una preoccupazione più che legittima, ma ho deciso che invece di iniziare l’interazione con una scusa inutile, sarebbe altrettanto opportuno, anzi meglio, ringraziarli per il loro tempo e per la loro attenzione.

Quello che ho capito è che c’è una sottile ma importante differenza tra riconoscere di essere coinvolti nell’infastidire qualcuno e prendersi la colpa per questo.

Se il traffico terribile mi fa fare tardi e devo incontrare qualcuno, appena posso gli dirò a testa alta che ammetto che l’attesa fa schifo ma lo ringrazio sinceramente per la sua pazienza. Magari riuscirò a comprarlo con una tazza di caffè come segno di apprezzamento. Non agirò come se fossi in colpa per un tamponamento a catena di tre auto che ha causato chilometri di ingorghi.

Se sto camminando lungo un marciapiede stretto verso qualcun altro, e la persona si ferma per lasciarmi passare, io sorrido e lo ringrazio e continuo per la mia strada. Non voglio dire “mi dispiace”, come se avessi fatto qualche errore di giudizio perché occupo lo spazio in un luogo pubblico.

Questo non vuol dire che a volte non rovinerò le cose, lo faccio, con eleganza. Posso essere impaziente, impetuosa e insensibile, e fare ogni sorta di altre cose che mi porteranno a fare errori. E quando questi errori accadranno, dirò, e stavolta sul serio, “Mi dispiace”. Non si tratta di non essere responsabile di me stessa e delle mie azioni; riguarda il fatto che non sono più così riflessiva e non sto li a farfugliare scuse che sono dovute.

Si tratta di cambiare la mia predisposizione predefinita riguardo all’avere un senso di colpa inutile.

“Mi dispiace” era diventata come una stampella per me e per molte altre donne, ne sono sicura. Ammettevo che era un’abitudine e così facendo una persona sembrava abbastanza innocua, ma si allontanava sempre più dal proprio modo di essere.

Devo però sottolineare che un uso eccessivo d’espressione “mi dispiace” denota un modo pigro di comunicare che ci si porta dietro come se fosse una zavorra o un bagaglio pesantissimo da trascinare.

Queste scuse potrebbero aver fatto intendere che fossi una persona educata, cordiale e rispettosa, ma hanno anche messo in evidenza una serie di altri attributi, compreso che ero remissiva e che mi sentivo inadeguata. Queste ultime due caratteristiche non fanno parte dell’immagine che voglio dare e, soprattutto, non è così che mi voglio sentire.

Fonte: L’Huffington Post

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin
Per suggerimenti, storie o comunicati puoi contattare la redazione all'indirizzo redazione@wellme.it