crudelta cattiveria

Cattivi si nasce?

Crudeltà: ecco perché cattivi si nasce… o si diventa!

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin

Cattivi si nasce… ad affermarlo è lo psicologo inglese Simon Baron-Cohen che ritiene che la cattiveria sia una malattia dovuta alla scarsa capacità empatica.

La scorrettezza nostra o altrui in pratica, sarebbe scritta nei geni. Lo psicologo, famoso per i suoi studi sull’autismo e sulle differenze tra i generi, nel suo libro “Zero Degrees of Emphaty. A New Theory of Human Cruelty“, ci spiega la crudeltà umana da un punto di vista scientifico invece che morale o religioso e, per rintracciarne le cause, parla di malattia invece che di male.

Dunque, dipenderebbe tutto dall’empatia, la capacità di immedesimarsi in un’altra persona e capirne i sentimenti. L’empatia è una capacità innata, tuttavia ci sono delle forti differenze individuali e la comprensione dell’altro non è frutto solo di sforzo intellettuale, ma dell’attività di precise aree cerebrali che ci rendono più o meno sensibili e attenti verso gli altri.

Per Baron-Cohen la capacità di “mettersi nei panni degli altri” può esprimersi in 6 gradi, dal livello massimo, che denota forte intuitività e comprensione degli altri, fino al grado zero, in cui la capacità empatica umana è pressoché assente. La maggior parte delle persone si trova più o meno a metà, è possibile che si verifichino dei cali temporanei di empatia, ma ci sono anche individui poco empatici a causa di una precisa conformazione dei loro circuiti neurali.

Ma i geni non sono tutto ed anche il tipo di relazioni e affetti istaurati durante l’infanzia possono influenzare l’empatia. Laura Boella, filosofa dell’università di Milano, autrice del saggio “Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia“, mette in guardia dal rischio attribuire tutta la responsabilità ai geni, questo finirebbe per giustificare sia le scorrettezze quotidiane sia la crudeltà. Secondo Boella la teoria è interessante “come riflessione sul lato oscuro dell’empatia, perché da un po’ di tempo questa capacità umana sembra diventata la risorsa che ci salverà, la molla che ci garantisce la socievolezza, la possibilità di stare insieme e occuparci dell’altro“. Una prospettiva superficiale che la riflessione della filosofa italiana respinge “Tutta una serie di analisi e teorie recenti hanno investito l’empatia di un ruolo salvifico per il mondo contemporaneo. Il discorso di Baron-Cohen è un invito a riflettere sul suo reale funzionamento”. Insomma, dell’empatia si parla solo in positivo, come attitudine pro sociale, che favorisce le relazioni umane, la cura, la condivisione della sofferenza altrui. In realtà non si tratta di una capacità garantita, che possiamo dare per scontata, al contrario è molto fragile, vulnerabile e soggetta a cadute, subisce delle variazioni individuali notevolissime.

Quando si parla di empatia, è anche importante considerare i fattori esterni, come sottolinea la Boella “Ci sono situazioni sia patologiche come la schizofrenia o comunque borderline in cui stress, depressione, alcolismo, deficit dello sviluppo psichico nell’età infantile possono compromettere notevolmente la capacità empatica. Baron-Cohen parla addirittura di modificazioni cerebrali e aree del cervello che si sviluppano in maniera deficitaria proprio in seguito a situazioni critiche dell’infanzia oppure a determinati fattori“.

La teoria di Baron-Cohen è utile per tenere sotto controllo i piccoli cedimenti quotidiani, che un pezzetto alla volta possono portare se non al grado zero di empatia, quanto meno a una pericolosa indifferenza verso gli altri. “Perché il male ha anche una dimensione impercettibile, che spesso lasciamo andare tranquillamente. Ci sono forme di malvagità che potremmo definire subliminale e che passano attraverso il non accorgersi e non tener conto della presenza degli altri. In questo senso la tesi di Baron-Cohen è collegabile alle teorie harendtiane sulla banalità del male“. Banalità del male che può valere sia per i grandi criminali della storia che per le nostre disattenzioni quotidiane. “Il problema è che l’empatia la si dà per scontata ed è del tutto trascurata nell’educazione, invece dovrebbe essere coltivata e gestita attivamente, magari educando all’empatia anche a scuola“, conclude Boella.

Insomma, la società moderna ci pone un’altra sfida individuale: quella di sentirci vicini al prossimo, quella di uscire dalla nostra dimensione individuale per calarci nei panni degli altri.

Solo questo quotidiano esercizio ci può salvare dalla crudeltà, caratteristica infamante della nostra specie.

Manuela Marino

Condividi su Whatsapp Condividi su Linkedin