ho sognato un mondo senza cancro

Intervista al Dott. Mandelli: ho sognato un mondo senza cancro

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Una vita trascorsa in corsia con un’unica grande speranza: debellare i tumori del sangue. Lo racconta uno fra i più noti ematologi al mondo, il professor Franco Mandelli, nel suo “Ho sognato un mondo senza cancro“.

A quasi 80 anni Mandelli, per la prima volta, mette nero su bianco i suoi trascorsi, raccontando – attraverso i volti e le storie di uomini, donne e bambini da lui curati – le sue esperienze di medico e di uomo. Come in un’autobiografia, il professore racconta le difficoltà e la sua determinazione nell’affrontarle per dare una spinta innovatrice ad una sanità ottusa e poco lungimirante; ma anche la sua passione e completa dedizione per la medicina e i suoi pazienti.

Mandelli racconta come con caparbietà e competenza fa dell’Ematologia di Roma (e italiana) una realtà di livello europeo e come i sorrisi delle persone che ha salvato e il dolore dei familiari di coloro che non ce l’hanno fatta gli hanno dato la forza per andare avanti, anche quando tutto sembrava andare nel peggiore dei modi. Insomma, nelle sue 304 pagine, il professore narra “la vita e le battaglie di un uomo che non si arrende“.

Franco Mandelli (con Roberta Colombo). “Ho sognato un mondo senza cancro”. Sperling & Kupfer, € 18,00. La testimonianza lucida e vivida di un medico che ha dedicato tutta la sua vita alla lotta contro le leucemie, anche quando ammalarsi di tali patologie significava firmare una condanna a morte.


Abbiamo incontrato il professor Franco Mandelli, in occasione di una delle tante presentazioni del suo libro, i cui proventi della vendita verranno devoluti all’AIL – l’Associazione Italiana contro le Leucemie, Linfomi e Mieloma di cui è presidente.

WM: Professore, lei nel suo libro racconta di decisioni personali e professionali difficili da prendere, di continui ostacoli da superare, della necessità non sempre compresa di far cambiare mentalità a colleghi e gente comune, insomma racconta di una montagna ardua da scalare. Cosa le ha dato la forza di andare avanti?

FM: La passione per la medicina. Di fronte ai continui ostacoli, tante volte ho pensato di tornare nella mia amata Bergamo. Ma ogni volta mi son detto che per guarire i malati, per lottare contro queste terribili malattie, non bisognava mollare e così è stato. Poi, devo dire che sono stato fortunato perché ho sempre avuto accanto persone che hanno creduto in me ed hanno appoggiato le mie scelte, le mie decisioni. Tra queste, primi tra tutti i volontari, che erano sempre più numerosi. I volontari hanno operato con entusiasmo, grinta e determinazione, pronti e disponibili a fare tutto ciò di cui c’era bisogno. Posso anche dire che lavoravano più di tutti quanti, anche più di medici e infermieri che venivano pagati. I volontari sono stati fondamentali. E lo sono tuttora.

WM: Lei nella sua attività di medico ha sempre messo al centro il malato e non la malattia, perché?

FM: Fare il medico non significa solo curare le malattie, ma molto di più. La medicina è un lavoro di squadra e in prima linea c’è sempre il paziente, col quale bisogna avere una profonda empatia. Poi ci sono i parenti, che hanno bisogno di conforto, di un rapporto di fiducia e di affetto. E infine ci sono i medici, che devono lavorare insieme, indipendentemente dal loro ruolo, che devono sostenersi a vicenda ed operare scelte a volte anche rischiose, tenendo sempre bene in mente il loro scopo finale: il benessere del paziente.

WM: Se dovesse mandare un messaggio ai pazienti che hanno appena scoperto di essere affetti da leucemia, mieloma, linfoma, cosa si sentirebbe di dire loro?

FM: Di non perdere la speranza perché anche quando un medico sa, pensa, che per quel malato non c’è niente da fare, in effetti può esserci un farmaco nuovo che cambia la prognosi in pochi giorni. Quindi è difficile dire “non c’è niente da fare”.

WM: Nel suo libro scrive “Amo i donatori perché senza di loro non esisterebbe l’ematologia, senza di loro molte malattie ematologiche non sarebbero curabili e tante persone sarebbero lasciate al loro destino infausto”. Inviti le persone, soprattutto ai giovani, a donare il sangue.

FM: Io l’invito a donare lo faccio con grande carica perché il sangue, soprattutto nelle grandi città, anche del nord, manca. Il sangue non basta mai. Io dico sempre che basterebbe che un donatore ne portasse un altro per risolvere il problema. Io non sono mai riuscito a fare questa che chiamo la catena della felicità. Donate il sangue perché non fa male e salverete una vita umana.

WM: La sua dedizione all’ematologia lo ha tenuto spesso lontano da casa e dalla sua famiglia. Se dovesse dare un giudizio al Franco papà e marito, che voto si darebbe?

FM: Darei un voto basso perché molto spesso ho messo i miei pazienti davanti ai miei cari. Ho perso la mia prima moglie per una malattia terribile e non le sono stato vicino come volevo. Anche per mio figlio sono stato poco presente, e mi dispiace. Ho sempre in mente che forse avrei potuto fare di più, ma questi sono discorsi che si fanno sempre dopo, mai prima. E infine, un grosso rimpianto ce l’ho anche pensando a tutti quei pazienti che non ce l’hanno fatta. Non li dimenticherò mai.

WM: Il suo libro s’intitola “Ho sognato un mondo senza cancro”. Potremmo un giorno scriverne un altro e titolarlo “Ho vissuto in un mondo senza cancro”?

FM: Il cancro purtroppo ci sarà ma io spero che arriverà il momento in cui la maggioranza dei pazienti verrà curata, come viene curato quello con la broncopolmonite o con la tonsillite.

Fabrizio Giona

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