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Quoziente intellettivo: un mito da sfatare

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Chi di noi non ha provato almeno una volta a rispondere ai test per misurare il proprio quoziente intellettivo? A quanto pare, quello che viene considerato l’unico indice in grado di misurare l’intelligenza sarebbe solo un mito da sfatare.

Uno studio condotto dal Western’s Brain and Mind Institute, in Canada, ha infatti rilevato l’infondatezza della teoria del quoziente intellettivo o QI. Misurare l’intelligenza attraverso un semplice test potrebbe essere fuorviante, perché è necessario valutare diverse prove.

La ricerca, pubblicata sulla rivista Neuron, ha coinvolto 100 mila persone provenienti da tutto il mondo, le quali sono state sottoposte – tramite il web – a 12 test cognitivi per analizzarne memoria, ragionamento, capacità di pianificazione e attenzione, insieme ad un questionario per conoscere le loro abitudini di vita e la loro situazione socioeconomica e familiare.

Dai risultati è emerso che le differenze osservate nelle funzioni cognitive sono imputabili a tre diverse componenti: la memoria a breve termine, il ragionamento e la capacità di verbalizzazione.

Grazie alla disponibilità di numerosi dati è stato inoltre analizzato quanto l’età, il sesso e alcune abitudini, come giocare al pc, possano influire sulle funzioni cerebrali: per esempio, l’avanzare degli anni incide sulla memoria e sul ragionamento, il fumo peggiora le capacità di verbalizzazione e la memoria a breve termine, mentre l’ansia incide soltanto sulla memoria a breve termine.

«Il cosiddetto “Brain training” sembra invece non avere alcun effetto sulla funzionalità del cervello – spiega Adrien Owen, a capo della ricerca – mentre i videogiochi parrebbero favorire il ragionamento e la memoria a breve termine».

Tuttavia, questa ricerca non è l’unica ad intaccare la veridicità del quoziente intellettivo. Un altro studio, questa volta tutto europeo, ha dimostrato che essere bravi in matematica non dipende dal quoziente intellettivo, ma da quanto si è motivati a studiare i numeri.

Kou Murayama, psicologo dell’Università di Monaco, dopo aver analizzato 3500 bambini delle elementari, ha scoperto che soltanto quando si comincia a studiare matematica è importante l’intelligenza per ottenere buoni voti; in seguito, invece, conta una buona motivazione, insieme all’autostima e alle capacità di studio, cui devono contribuire anche gli insegnanti.

«Motivare i bambini e interessarli alla materia è uno dei modi migliori per farli progredire nello studio – sostiene il dottor Murayama – Vale per la matematica ma, probabilmente, anche per le altre materie».

Insomma, chi di noi non brillava a scuola quanto a voti pensando di non essere abbastanza intelligente, può consolarsi perché il quoziente intellettivo non ha poi così tanta importanza.

Silvia Bianchi

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